Sono molti gli aneddoti e i racconti legati a Zigo-gol, un giocatore che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’Hellas. Di lui vivono e si rinnovano i racconti. Eccone alcuni tratti da una lunga intervista che gli fu dedicata alcuni ani fa.

Gianfranco, deriva dall’ebraico Yohanan, che significa “dono del signore”, e dal germanico Franc, che significa “libero”. Fu un dono per i tifosi veronesi e talmente libero nelle sue scelte da essere addirittura dissacrante.
Al mondo i grandi siamo in tre, credo…: io, Vendrame e il Che Guevara… poi il più grande di tutti, devo dirlo, è Dio“.
E non è un caso che a Verona, nella sua adorata Verona, dove sfoggiò al meglio le doti calcistiche che madre natura gli aveva concesso, sia per tutti ancora oggi il venerato “Dio Zigo” (“Dio Zigo pensaci tu” è anche il titolo dell’esilarante biografia, scritta a quattro mani con un altro grande poeta del calcio che il nord-est ha sfornato, Ezio Vendrame).
Ma Zigo aveva anche un altro mito, che a calcio non aveva mai giocato, ma come lui amava il popolo, e il popolo ricambiava: Ernesto Guevara de la Serna, il Ché. “In quell’uomo che lottava per la povera gente e per combattere in ogni parte del mondo l’ingiustizia io mi identificavo”.

Racconta: Mi piaceva andare a caccia, “finché un giorno a caccia, colpii un merlo, che cadde vicino a un laghetto. Mi avvicinai per raccoglierlo e incrociai il suo sguardo. Lui era ferito, ma vivo, e i suoi occhi mi dicevano: “Brutto bastardo che non sei altro”. Mi sentii un mostro. Lo strozzai per non farlo soffrire, gettai la carabina e mi ferii alla fronte con il filo di ferro di un vitigno. Sanguinavo. Il giorno successivo vendetti i fucili”.
Zigo-gol, il ribelle col cuore grande.

Racconta: Nei turbolenti inverni degli anni Settanta ero solito indossare una pelliccia bianca e portavo la pistola infilata nella cinta dei pantaloni. “Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso“. M’immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più Bentegodi, ma Gianfranco Zigoni“. La radio avrebbe gracchiato: “Scusa Ameri, interveniamo  dallo Zigoni di Verona…”. “Ero davvero un pazzo furioso».
Una volta Valcareggi mi escluse dalla formazione titolare del Verona, e io mi presentai in panchina al Bentegodi con una pelliccia di volpe e un cappello da cowboy.
«La domenica dopo il vecchio Valca mi fece giocare».

Racconta:Non ho mai frequentato il gregge. Ho accumulato più giorni di squalifica che gol perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri”. Dicevano: bisogna credere alla buona fede degli arbitri.Ma per favore…, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. Trenta milioni degli anni Settanta: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti!
Il prezzo della mia libertà di opinione”
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Raccontaci la storia di Pelé:
Sta’ a sentire, io avevo una grande opinione di me. Pensavo di essere il più forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l’avversario e lo colpivo col mio pugno, che era micidiale. Fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky. Un giorno, alla Roma, capita di incontrare il Santos di Pelé. In amichevole, all’Olimpico. Mi dico: “Oeh, giustizia sarà fatta, oggi il mondo capirà che Zigo-gol è più forte di Pelé”. Lo aveva già detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni Sessanta, tripletta mia. “Ragazzi – dichiarò il Trap quel giorno – Zigoni è meglio di O Rei”. Lo aveva ammesso Santamaria, gran difensore, dopo una sfida Juve-Real Madrid. Io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse così a Sivori: “‘Sto chico è migliore del negro”. Ero convinto della cosa, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi. Poi arriva l’amichevole col Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparai la dichiarazione in terza persona:
“Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui”.

Perché cambiasti idea”?
A un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore”.

Racconta: Una volta mi feci cucire la Zeta («Di Zigoni e di Zorro») sui pantaloncini. «Fui il primo, trent’anni fa non si usava. Oggi il nome dei giocatori compare su ogni maglia.
E fui anche il primo a giocare con le scarpe rosse e gialle. Sono sempre stato uno spirito libero, ero sempre me stesso, nel bene e nel male: non come i calciatori di oggi che sembrano fatti con la fotocopiatrice. A quei tempi, giravo in Porsche. Oggi ce l’hanno tutti.
E allora io vado in bici».

Racconta: una volta in ritiro con la nazionale Juniores tirai addosso a Boninsegna una palla da biliardo. Era appena arrivato in Nazionale e voleva fare tutto lui: battere le rimesse laterali, le punizioni, i calci d’angolo e allo stesso tempo andare a colpire di testa. Gli ho fatto capire chi comandava. Mancai di un niente l’occhio di Bonimba, che da quel giorno girò al largo dalle punizioni e dai calci d’angolo.

 

 

 

 

 

 

Racconta: una volta ebbi una discussione con l’allora allenatore della Juventus Heriberto Herrera, lo alzai da terra, chiamai la squadra sotto la finestra della sua stanza e lo lasciai ciondolare nel vuoto per un paio di minuti. Cominciò lui, perché mi diede a freddo un pugno sullo stomaco. A quel punto non ci vidi più: meritava una lezione, anche se era l’allenatore».
Zigo-Gol vince uno Scudetto, segna 8 gol ma non si trova, litiga con l’allenatore, Heriberto Herrera dal quale riceverà appunto pure un bel cazzotto: “Tua madre è una santa e tu sei un hijo de puta“. Heriberto Herrera era un dittatore, mi faceva sempre correre. Ora che se n’è andato spero di non doverlo incontrare in cielo quando sarà il mio turno, perché quello è capace di farmi correre anche lassù”.
Le chiamate di controllo della società alle 22 e l’imposizione di tagliarsi i capelli lo convinsero a migrare a Roma.


Racconta: Andai a discutere il contratto col presidente del Verona Garonzi e sapendo che questi teneva una pistola nel cassetto della scrivania, aspettai il momento opportuno, aprii il cassetto, la presi al volo e gliela puntai contro. Uscii dal suo ufficio con un sostanzioso aumento.

Racconta: All’esordio in Nazionale, a Bucarest nel ’67, “giocai divinamente, – d’altronde ero il più forte – solo un tempo, poi nella ripresa decisi che era meglio riposare. Faceva un caldo terribile. Nel secondo tempo Rivera andò a cercarsi l’ombra sotto la tribuna e gli altri fecero più o meno lo stesso. E perché io dovrei essere l’unico a correre? Pensai. Esordiente sì, ma cretino no. L’Italia vinse, ma da quel giorno “Zigo” non giocò più in maglia azzurra.

Racconta: dopo un Lazio-Juve uscii in mutande dall’Olimpico, perché il difensore che mi marcava non riuscendo a starmi dietro me le aveva sfilate. Con le regole di oggi, se qualcuno cercasse di fermare uno come Zigo si beccherebbe il cartellino rosso dopo cinque minuti. Dicono che una volta si giocava al rallentatore? Balle. Questi di oggi corrono, perché non sanno fare altro. Si chiamano “calciatori” perché calciano tutto quello che gli capita sotto tiro. Noi eravamo “giocatori”, perché ci piaceva giocare.

Racconta: che una volta alla Roma, prima di una punizione dal limite, finsi di litigare con Bob Vieri (il padre di Christian) e cominciai a tirargli la barba. Era un modo per far perdere la concentrazione al portiere. Tirai la punizione e segnai.

Racconta: che l’amico Logozzo una volta protestò perché in ritiro tutta la squadra era costretta ad alzarsi alle 8 mentre io potevo starmene a letto fino a quando mi pareva. Valcareggi lo prese da parte e gli disse: quando avrai anche tu due piedi come quelli di Zigoni, allora potrai dormire fino a mezzogiorno.

Racconta: una volta mentre guidavo la mia Porsche azzurra, per evitare un trattore, uscii di strada, feci due-tre capriole, finii in un fosso, distrussi la macchina, non mi feci neanche un graffio ma mi finsi morto. Stavo tornando a casa dopo l’allenamento, ma andavo piano, te lo giuro. Dietro di me c’erano Maddè e Costa, il medico del Verona che scesero dalle loro auto e corsero a prestarmi soccorso. Appoggiai la testa sul volante e finsi di essere morto: quando si avvicinarono di corsa al finestrino, sorrisi e gli feci l’occhiolino. Per poco non schiattarono lì sul posto.

Racconta: Valcareggi mi confessò che uno con il mio talento sarebbe potuto diventare il più forte giocatore italiano, ma Zigo ci spiazza, ancora: “a me giocare a calcio non piaceva, ho sempre pensato che il mio sport fosse il rubgy (è fan sfegatato degli All-Blacks) o lo sci“. Poi tira in ballo anche Leo Messi: “vedo Messi e dico ‘vivi! Goditi la vita!’ Perché sacrificare una vita per correre dietro ad un pallone? Non me n’è mai fregato un cazzo di diventare il migliore, quando d’estate andavamo in ritiro sparivo invece di correre, mi sedevo lungo i sentieri ed ascoltavo il canto degli uccellini, sono un po’ come San Francesco“.

Racconta: nel corso di un Verona-Vicenza, amichevole di fine stagione (con Vendrame dall’altra parte: che partita!), avevo fatto una partita sotto tono, decisi di riscattarmi da quel torpore, saltai in dribbling 4 avversari e infilai il pallone all’incrocio dei pali e poi andai dritto negli spogliatoi, salvo che mancavano 20 minuti alla fine della gara. Risultato? Gli ultimi 20 minuti si giocarono in un silenzio assoluto, perchè il pubblico abbandonò letteralmente lo stadio quando il suo idolo Zigo-gol, decise di uscire dal terreno di gioco.

 

Racconta: «Sono stato fortunato. Mi sono divertito un sacco. Rifarei tutto, non rimpiango niente. Ho giocato a calcio per vent’anni (ha esordito nel ’61, a diciassette anni, con la Juve, poi ha vestito le maglie di Genoa, Roma, Verona e Brescia, dove ha chiuso nel 1980, n.d.a.) e dappertutto mi hanno voluto bene. Sto bene con me stesso, e questa è la cosa più importante.

 

Racconta: che nel quartiere dove viveva, nei primi anni della sua vita ne combinava di tutti i colori assieme agli altri ragazzi del cosiddetto Bronx opitergino. Spedizioni per rubare le uova alle suore e le galline ai contadini, “perché la vita era davvero grama in periferia”, in attesa del momento più bello dell’anno; l’estate e il Grest, durante il quale venivano organizzate gare di ogni disciplina. Sulla carta – racconta Zigo – i più forti erano quelli del centro e il prete tifava per loro perché non mancavano mai alla Santa Messa. Ma purtroppo per lui alla fine vincemmo tutto noi. La sfida più sentita era naturalmente quella calcistica. E guarda caso, un anno in finale, si scontrarono “quelli del Marconi” e “quelli del centro”. Zigo, prima del fischio d’inizio si rivolse ai suoi compagni ordinando: “tutti in difesa e la palla sempre me”. La partita, va da sé, la vinse Zigo da solo, ma venne anche espulso per le proteste veementi contro l’arbitro di quella gara, Nane Vendrame, che poi divenne un suo grande amico ma che quella volta gli annullò un gol regolare. “Da quel giorno ho iniziato a detestare gli arbitri”.
Da adolescente Zigo giocò nella squadra dell’oratorio, il Patronato Turroni, fino a quando non passò da quelle parti Bepi Rocco, detto il Crèp, che all’epoca reclutava giovani per la Juve. Bastarono pochi istanti per capire che quel ragazzo che palleggiava scalzo davanti al portone di casa con la grazia di un ballerino, meritava di fare strada. E così decise di mandarlo al Pordenone per un provino, prima di lanciare la profezia: “Gianfranco, un giorno giocherai nella Juve”.

Per Zigo i più grandi di sempre sono stati Maradona e Sivori: “Messi e Ronaldo non sono nulla rispetto a loro”. E quando gli chiedi un nome per l’Italia, Zigo non ha dubbi: “Meroni, il grande Gigi Meroni, la ‘farfalla’ del glorioso Toro, che ci ha lasciato troppo presto (morì a 24 anni travolto da un’auto, ndr)”. E che, come Zigo, era un ribelle, un creativo, un avanguardista, che per le strade di Torino si dice andasse in giro con una gallina al guinzaglio, vestito sempre con una pelliccia e gli occhiali da sole, come una vera rockstar.  Alla Juve, nonostante lo scudetto e i grandi ricordi come la semifinale di Coppa dei Campioni contro il Benfica di Eusebio, non fu mai totalmente a suo agio. Disciplina tattica e comportamentale, rigore, intransigenza e inflessibilità: parole che non esistevano nel vocabolario di Zigoni.  Pur non dimenticando la sua parentesi genovese così come i due anni giocati con la maglia del Brescia di Gigi Simoni, gli anni più entusiasmanti per la carriera di Zigo furono quelli trascorsi nelle fila della Roma (1970-1972) e del Verona (1972-1978). “Quando nell’estate del 1972 la Roma mi vendette al Verona ero triste, ma non sapevo ancora che avrei trovato un altro paradiso”.

Roma, per Zigoni, è un fiume di ricordi: la città stessa, “un’esplosione di bellezza”, l’attico sulla Cassia, dove portava le sue conquiste, per dimenticare il mondo, l’incontro con Laura Antonelli, “bellissima, la conobbi in una sartoria, dove andava anche Alain Delon, mi mostrò una mutandina di raso rosso che si stava comprando e mi chiese con uno splendido sorriso se mi piaceva” – la grande amicizia con Franco Citti e il povero Alessandro Momo, le ceste di birra e i quintali di Marlboro rosse per passare il tempo nel ritiro a Fiuggi mentre il “Mago” Herrera andava a trovare di nascosto la sua Fiora Gandolfi, i pizzicotti di Franco Scaratti quando non aveva voglia di giocare, e naturalmente la mitica curva Sud.

Per Verona fu lo stesso: la curva dei butei che cantava a squarciagola Zigo-gol, il rapporto di amore e odio con il presidente Garonzi, le porsche sfasciate, la Fatal Verona, gli spari ai lampioni con la sua inseparabile Colt 45, le notti infinite, i derby col Vicenza, le estati a Jesolo, dove conobbe Pier Paolo Pasolini, i “ritiri spirituali” in cascina, come lui li chiamava, con il sacro uovo sodo, il sacro panino col salame e il sacro raboso, fino alla crisi mistica che lo condusse a vivere per un anno in parrocchia da don Augusto – uno dei tanti preti che aveva segnato la sua vita – e diede l’assist all’Arena di Verona per un titolo che ancora oggi riecheggia nelle strade della città scaligera, “Zigoni: dal Dom Perignon all’acqua santa”.
Alvise Tommaseo Ponzetta scrive bene nella prefazione di “Dio Zigo pensaci tu”, che il grande Zigo, “pur diversissimo nel carattere, potrebbe essere paragonato, per certi versi, a Primo Carnera, il gigante buono di Sequals”, perché “a entrambi il denaro e il successo, che pur avevano meritatamente conquistato, interessavano relativamente; quello che contava erano gli amici e l’amore per la loro terra, dove alla fine sono sempre tornati”.

Alla fine del racconto che si vorrebbe continuasse all’infinito siamo sicuri che quella frase che lui ama ripetere per descrivere il suo grande amico Ezio Vendrame vale anche per lui: troppo grande per essere di questa terra.

 

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